Translagorai Classic

15/07/2023 Jacopo Troiano

Ho iniziato a scrivere il mio resoconto la sera dopo esserci trovati in giardino da me con gli altri del TRC, tra cinque pizze maxi, un tot di birrini e le mille storie pazze di chi ha vissuto la traversata da prospettive diverse. Roby (Roberto De Gasperi) ci ha letto in anteprima il suo resoconto: è stato un bel momento, nel suo gesto ho riconosciuto quanto questo gruppo di amici stia crescendo rapidamente divertendosi, creando un senso di appertenenza ad una comunità che si sta sviluppando con entusiasmo. A distanza di tre mesi (forse ora ne sono passati quattro, boh) non ho ancora finito, e proprio sta mattina che non devo andare a lavorare voglio provare a dare precedenza a qualcosa che non sia il mio allenamento; mi metto comodo sul divano, accendo il pc e cerco il file sul desktop, ma non c’è. Apro freneticamente tutte le cartelle sperando di averlo accidentalmente spostato o rinominato, ma nulla. Perso. Esco a correre per farmela passare perchè avevo scritto un bel pezzo di racconto, ma pace, inizierò da capo quando ritorno.

Il tardo pomeriggio del 15 luglio vado a casa di Loren illuso del fatto che ci saremo aiutati a vicenda nel ricordarci tutto quello che l’anno scorso non avevamo: io partii dal Rolle con una vest da 6 litri praticamente vuota, nemmeno mezza flask riempita, forse tre barrette, niente guanti né guscio; lui in verità aveva di tutto e di più, inclusa una thermos colma di sangria e le cose più folli che non trovereste mai nella vest di un ultra runner. La fase di preparazione è caotica, disordinata, e alimenta quel filo di agitazione pre gara, ma siamo gasati ed entusiasti perchè questa diavolo di corsa la aspettiamo da un anno, e la portiamo nel cuore per davvero. Mangiamo un mango congelato e mettiamo a bollire un kilo di riso, mentre beviamo litri d’acqua e finiamo di sistemare le ultime cose.
Partiamo da Trento verso le 17 e arriviamo in Panarotta con il tempo sufficiente ad abbracciare i nostri amici, allacciare le scarpe e radunarci davanti all’arco di legno con intagliata la scritta “TRANSLAGORAI CLASSIC”. Poi il discorso di Filo, la traduzione in inglese di Noah per James e via, senza quasi accorgersene. La partenza è stato un bel momento, usciranno le fotografie, andatele a vedere.

Dopo un paio di kilometri io, Tom e Mirko Cocco siamo davanti, poco dietro ci sono Roby, Alberto Ferretto e Mattia De Paoli, se non ricordo male. Dietro ancora, Loren con Simo Andreani che di tanto in tanto ci delizia con uno dei suoi “Correre fa schifooo!”. Che king. Noi tre corriamo bene, siamo freschi e nessuno sembra intenzionato a staccare nessuno; arriviamo al Sette Selle come se fossimo usciti dopo cena per mangiare il gelato, e al rifugio non avevano fatto in tempo a preparare nulla prima che arrivassimo: ce l’ha detto la gestrice mentre finiva di scrivere sulla lavagnetta “Benvenuti Corridori” o qualcosa di simile. Come non detto, ripartiamo verso il Manghen e tiriamo fuori le frontali. La luce inizia a farsi più debole e sale smisuratamente la mia voglia di dormire, di essere in un altro posto, e mi disturba nel profondo perchè so esattamente che sono dove devo e voglio essere: ho scelto di correre 80 kilometri in montagna, di cui buona parte al buio, saltando in silenzio da una lastra di porfido all’altra. E così faccio, corro in silenzio, lascio fluire i pensieri e mi chiedo per quanto tempo saremo riusciti a tenere quel passo. Stavamo correndo forte, tanto che il giorno dopo, al Rolle, Filo mi disse che così avremo potuto utopicamente finire la traversata in tredici ore.
Arriviamo al Manghen tra le mille lucine a bordo sentiero e quelle che addobbavano i furgoni dei ragazzi al ristoro. Erano tutti gasati, il Pass aveva stranamente una birra in mano, io ho mangiato una banana e fatto due chiacchiere un po’ confuse mentre Micky e Zambo mi riempivano le flask. Prima di ripartire ricordo di aver detto loro che mi sarei fermato volentieri per il resto della serata, ma mi hanno risposto di muovermi e che sono un coglione. Paradossalmente, per me i primi kilometri sono stati i più difficili da percorrere, da mandare giù. In realtà stavo bene fisicamente, ma ero ancora parzialmente influenzato da quella malsana voglia di sprofondare in un letto. L’aria si alza e il vento si fa forte, indossiamo la ventina e ripartiamo in silenzio verso il Cauriol, senza pensarci troppo su.

Non ricordo troppo dei kilometri successivi, ho spento il cervello per non lasciarmi sopraffare dall’entusiasmo e dai pensieri che mi si addensavano in testa come la nebbia: ero lì davanti, io, e tra tutte le puttanate era l’unica cosa che contava, le gambe giravano quasi per automatismo e correre sembrava la cosa più facile da fare, anche in Lagorai. Delle poche parole fatte mi sono rimaste quelle di uno scambio sintetico e spiccio fra me e Mirko, quasi come se parlare fosse qualcosa di evitabile e superfluo durante il tentativo di quella traversata. Mi chiese che gare avessi corso durante l’anno ed io, che di ufficiale non avevo ancora corso nulla, rispondo semplicemente che non mi sono ancora deciso a farle, ma che a giugno sono stato nelle Marche e ho vinto Urma, nel posto dove l’anno prima iniziai a correre per davvero. Poi faccio la cosa più logica e gli giro la domanda, risponde che ha partecipato a LUT e che ha concluso in diciottesima posizione se non ricordo male.

“No sta dirme zerte robe…” avrebbe detto Loren.

Mi giro verso Tom. Fa parte anche lui del TRC ma non lo conosco bene, so che corre forte e sogna le montagne un po’ come faccio io. Tom ha corso come piace a me: senza farsi troppe domande e senza calcolare, mosso da una passione irriducibile che è difficile da raccontare e forse anche da comprendere. Io lo stimo un sacco per questo. Quando penso ad una “mentalità Translagorai” è un po’ questa cosa qui: nulla da spiegare, nulla da capire, solo la corsa ha importanza, finchè si regge. Proseguiamo compatti nel buio pesto (eccezion fatta per le luci delle frontali) finchè Mirko ci fa cenno di proseguire senza di lui, ci accertiamo che stia bene e via di nuovo, questa volta in due, verso il Rif. Cauriol. Nonostante non abbia mai attraversato una vera e propria crisi a pochi kilometri dal rifugio inizio ad averne i coglioni pieni, dei rospi, dell’umidità, dell’inesorabile salire per poi scendere, scendere per poi salire. Scendiamo rapidi la sezione di discesa che porta al rifugio e ci arriviamo gasati, ridiamo e ululiamo come lupi, inizio a riconoscere la strada e vedo le luci che danno forma alle sagome degli altri di fuori, lì ad aspettarci. Colgo l’occasione per chiedere scusa ai pazienti e sfortunati pernottanti del Rif. Cauriol, abbiamo fatto un po’ di casino ma era inevitabile.

Mi rilasso un po’ prima di ripartire, sono disteso e sollevato, consapevole del mio stato fisico e mentale, e poi, ora che “manca poco”, ho ancora un sacco di voglia di correre e arrivare al parcheggio del Rolle il prima possibile. Ricordo Zambo (Matteo Zamboni) che pochi giorni prima Translagorai mi aveva intimato:”Se arrivi al Cauriol demotivato, è finita”. Io paradossalmente mi sentivo meglio che al Manghen, era arrivato il momento di tirare davvero, mettersi in gioco e “iniziare a ballare” come ha scritto il buon Roby De Gasperi. Tom decide di ripartire con i bastoncini che fino a quel momento non aveva mai usato (non ti perdonerò mai per questa), per affrontare la salita micidiale che porta alla Forcella Canzenagol: quella salita ce la siamo mangiata, l’abbiamo sentita ma non ci ha distrutti e siamo arrivati in cima con la luce del sole che iniziava a scaldare le lastre di porfido che prendevano un colore rossastro. Da lì in poi sereno, in pace, quasi appagato; come se in quel momento fosse tornato indietro tutto quello che ho speso per completare questa traversata. I pensieri incominciano a rimbalzarmi nella testa, penso ai kilometri corsi e al tentativo dello scorso anno, mi guardo le gambe e i piedi e non ci credo di essere lì. Mi distacco lentamente dalla realtà e mi risveglio in un vortice di entusiasmo. Al Paolo e Nicola nessuno era sveglio ad aspettarci (grande comunque Metti che esce in mutande e ci urla addormentato:”Se volete abbiamo dell’acqua!”), lo superiamo a testa bassa senza temporeggiare più di tanto. Ora il cielo si è tinto di un azzurro vivacissimo e sembra un cartoncino colorato messo dietro alle cime basse e taglienti del Lagorai: passiamo sotto la Cima e al Campanile di Cece dopo aver attraversato la massacrante sassara ai suoi piedi, ricordo di aver scattato una fotografia, quel posto è veramente magico.

Dalla Forcella Cece al Bivacco Aldo Moro diminuiscono le energie e conseguentemente i ritmi, il sole picchia forte e Tom sembra iniziare a raschiare il fondo del barile; non che io fossi fresco come una rosa, ma ero mentalmente preparato ad affrontare quell’ultimo tratto, quello che più lo percorri e più si allunga, quello che costituisce il vero ostacolo dopo aver già percorso 70 kilometri di sentieri. Onestamente non so se si trattasse di mindset o di gambe: eravamo entrambi stanchi e stufi marci ma per me era fatta, e ogni volta che Tom si accasciava a terra distrutto mi fermavo per fargli capire quanto fossimo vicini. “Saremo a mezz’ora” gli dicevo, anche se non avevo la più pallida idea di quanto ci avremo messo realmente. “Se rimani qui due minuti sotto questo sole ti svegli tra due ore e mandi all’aria quello che hai fatto finora” cercavo di ripetergli, mentre si sdraiava sul porfido caldo. Ammetto che non faceva schifo l’idea di riposarsi sulle pietre baciati dal sole, ma avremo avuto tutto il giorno per farlo, e c’era ancora del lavoro da finire.
Ho insistito parecchio per tirarlo fuori dalla sua pain cave, volevo arrivare al Rolle con Tom, sarebbe stato giusto e più bello così, ma dopo averlo accennato un paio di volte, alla terza si è fatto capire. “Tu vai”.

Mi fermo per un attimo, guardo in avanti, sono da solo. Solo io e quelle dannate montagne che mi fanno impazzire in tutti i sensi, non mi sembra vero e nulla è più normale, nulla mi fa male e nulla mi preoccupa; non ho nulla cui pensare, nulla che mi definisce: sono solo lì, presente, vivo. Vivo come non lo sono mai stato. Corro, rido, mi guardo in giro e rido ancora, mi sentivo il protagonista di Enter the Void imbottito di DMT, ma in Lagorai. In Forcella (Colbricon) sfilo le cuffiette da una tasca della vest, me le infilo nelle orecchie e metto in riproduzione un brano di Prince (non quel Prince) che s’intitola “Metallica”. Ho corso la discesa come se fossi sedato: non ho voglia di sforzarmi a trovare le parole per verbalizzare un momento così prezioso, non serve e sarebbe inutile. Scendendo becco a bordo sentiero Mike (Michele Fagnoni) e Giulio Repetto che dal Rolle avevano risalito un pezzo per fare tifo ai primi, fanno qualche video e danno il cinque. Arrivo ai laghi che mi sentivo bruciare dopo aver corso tutta la traversata con una long sleeve in Merino che con il sole pareva fondersi con la mia pelle, mi rinfresco testa, collo, braccia e polsi tra gli sguardi increduli degli hikers e riprendo a correre, costretto ad uno slalom estenuante tra le migliaia di persone che risalivano la stessa strada. Infondo alla discesa riconosco Maurizio Tranquillini che saluto sorridendo e faccio l’utimo centinaio di metri a canna, attraverso la strada, inizio a calpestare la ghiaia del parcheggio, alzo la testa e vedo l’arco, quello con intagliata la scitta “TRANSLAGORAI CLASSIC”. Ancora prima di passarci sotto mi tolgo la vest, non ne posso più di sentirla addosso, poi dieci metri, cinque, sono arrivato. 14:51’.

Mi butto in terra, che bello essere in quel parcheggio.
E comunque, è stato più facile correre che scrivere.

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