15/09/2023 Mattia Bertolini

Farfalle nello stomaco la prima volta che ho letto di translagorai classic. Da quel momento c’avevo solo lei in testa, Cortina e il resto erano contorni di una stagione.

Alla traversata collettiva non ero alla griglia di partenza, il ginocchio mi ha fatto stare dall’altra parte dell’arco di legno. Correre è bello sì ma anche le birette in piena golden hour della panarotta non sono male.

Sono settimane che ascolto il ginocchio, ogni tanto gli chiedo quale possa essere la giornata giusta per andare in panarotta e partire. Nel mentre anche la testa mette a fuoco il progetto. Scarico le tracce, studio il percorso, me lo divido nei classici tre spezzoni. Il primo lo faccio con zambo in un out&back ad inizio settembre. Un antipasto che mi ha aperto lo stomaco, ok metto nero su bianco e ipotizzo una data. Tra lavoro e impegni personali, la data cade proprio a due mesi precisi dalla partenza collettiva. Ne parlo con pochissimi, forse per superstizione o forse perché volevo affrontarla da solo. A pochi giorni dichiaro il tentativo sulla chat del trc per consigli e info utili.

Eccoci al 15 settembre, il buon zambo mi passa a prendere alle 19.15, io ero ancora in alto mare, ho cercato di riposare fino all’ultimo per limitare le crisi di sonno nelle ore successive, rifaccio lo zaino due tre volte, tolgo-metto, metto-tolgo. Zambo nel mentre mi fa un recap delle fontane e di come gestire flask e cibo, mi parla ma alcune cose me le faccio ripetere due volte. Ero giusto un attimo agitato. Mars e pick up (dei biscotti trovati al poli che dal nome pensavo mi potessero risollevare da qualche crisi: dimenticati ma me ne accorgerò solo poco dopo il manghen).

Mi faccio una specie di tabella mentale. Più che una tabella erano due numeri: cinque/cinque e mezza al manghen, undici o qualcosina di più al cauriol, basta. Per il terzo spezzone manco ci ho pensato, sapevo che mi avrebbe lapidato e io avrei dovuto solo capire come incassare i colpi.

Bom parto, 20.37. Ciao a tutti. Per i primi cinquecento metri mi sistemo zaino, bachetti, barrette e flask. Mi giro, si vede la città, si vede il poplar festival sul doss trento, a quell’ora ci sarebbe stato il cantautore marchigiano che volevo ascoltare, va bene parte il suo disco nella mia testa e inizio a cantarmela. Canto solo in testa o a bassa voce, certe volte guardo anche dove metto i piedi per incontrare quel sasso che due settimane prima in un allenamento aveva fatto scomodare qualche santo. Ogni volta che pensavo di averlo trovato automaticamente ne trovavo un altro contro cui calciavo, me la ridevo e cambiavo canzone. Sale la nebbia, salgo alla forcella del lago, inizio a scendere, scivolo, crack, il bachetto fa crack. E niente, mi faccio gli altri 65chilometri con un bachetto solo come i vecioti col baston en zità.

Arrivo in 2.45 al sette selle, sto bene, sono carico ma mi fermo: refill, panetto. Temevo di calare nelle ore della profonda notte e quindi finché stavo bene e conoscevo il percorso volevo pestolare bene. Garofani, palù, cagnon di sopra, cadino. Sono nel posto in cui vorrei essere.

Da cadino al mangheneti manca poco, a parte il pezzo attrezzato poi si è un attimo di là. La nebbia è sempre più fitta e la visibilità diminuisce, rumori di sassi e bestiole che si muovono, eccolo puntuale verso l’una di notte il primo calo mentale. Per fortuna ho rotto un bachetto e avevo una mano libera per portare con me un sasso di un paio di chili giusto il tempo di due chilometri nel caso avessi dovuto difendermi se le bestiole si fossero presentate.

Arrivo al manghen, sono nel posto in cui vorrei essere. Silenzio più totale. Nostalgico del campanaccio che agitava il luchino forti. Cerco la famosa fontana: faccio avanti indietro un bel po’ prima di sentire la testa che fa “sono a secco, la mia translager finisce qui”. Vado avanti, cerco di ricordare quanto mi aveva detto zambo e quello che aveva scritto il rafa sul gruppo. Niente fontana. Cerco allora quei famosi biscotti pick up per tirarmi su e giusto per impastarmi la bocca visto che acqua non ne avevo. Niente pick up. Porcogemanghen.

Spengo cervello, spengo la radio che avevo in testa e tiro dritto. Sto facendo dei gradoni di pietra che mi ricordano qualcosa, era il messaggio del rafa sul gruppo, magari la fontana sta più avanti? La fontana sta più avanti sì. Fontana parolone: un tubo che collega due pozze. Svolta mega, refillo tutto, malto, gellino, cambio disco e vado con gli a/lpaca. Momentone, volo i primi km, il bosco si allarga, faccio l’aeroplanino alla vincenzino montella. Sono nel posto in cui vorrei essere

Si vola per altri dieci chilometri finché non sento il gps vibrare e dirmi che sono sul sentiero sbagliato, strano perché non c’erano bivi. Torno indietro un po’ di volte, tempismo perfetto per la frontale che muore, non c’è male, inserisco delle pile che hanno cinque secondi di vita, non c’è male ne ho dietro altre tre, questa volta funzionanti. Il sentiero del gps non si trova, senza troppo controllare continuo sul mio sentiero, dopo manco un chilometro si sarebbe riallacciato con la traccia. Non si vedeva ma mi trovavo al lago delle stellune.

Passano le ore e il giorno sembra non arrivare più, ad un certo punto sforcello l’ennesima (non chiedetemi il nome) e arrivo sulla luna mentre sta albeggiando. Tempo venti minuti finalmente lascio la frontale. Tempo altri venti minuti scivolo e mi trovo comodo come su un divano: seduta liscia e ergonomica, braccia appoggiate sullo schienale in porfido, gambe a spenzoloni. Sono nel posto in cui vorrei essere.

Ormai sento il profumo di cauriol, si toccano i pali cambiati durante il trailwork di giugno, c’è ancora qualche su e giù ma breve e intenso, sassoni prima del baito del marino e giù dalla forestale. Solo duecento metri sopra il cauriol vedo la prima persona dopo aver salutato zambo ieri sera. La seconda persona che incrocerò sarà tommi del cauriol. Sono passate dodici ore e mezza, almeno un’ora in ritardo rispetto la mia tabella di marcia. Sti cazzi, stavo bene, avevo solo bisogno di cambiarmi calzini, maglia e fare due chiacchiere con qualcuno e per questo c’era tommi, tè caldo, crostata con panna. Mezzoretta di pausa già programmata. Lascio il bachetto rotto al tommi e riparto.

Si riparte con quella botta di sei/settecento di dislivello, ma sto bene e sono fresco, i piedi si inzuppano in tempo zero. Faccio una tirata fino al paolo e nicola dove sapevo poter fare refill e pausa per un altro panetto. Non ho molti ricordi di crisi ed altro fino a qua. Fino a qua appunto. Da questo momento inizio un’altra translager. Inizio a controllare l’orologio e chilometri mancanti, faccio due conti che tutti mi avevano detto di non fare e cerco di ipotizzare un orario di arrivo, faccio due conti anche con le pietraie e i piedi che iniziano a lamentarsi dell’umidità del biotopo zegama. Non c’è ancora malissimo, ma si inizia a salire per forcella cece. Si sale ma sapevo che doveva essere uno degli ultimi veri strappi lunghi e duri. Si sale eh, più che altro sono l’unico a salire, c’è altra gente ma la becco nel senso opposto come fosse un senso unico: sono contromano? Mancano venti metri, canto vittoria e mando vocale sul gruppo del trc: “sta forcella cece di merda, mi ha spurgato anche la prima mizza alle medie”. Faccio ultimi 20 metri e scopro che non è forcella cece, ma solo il bivio per cima cece. Incrocio due ragazze, come un disperato in cerca di due monetine per il treno per Bologna chiedo dove fosse la vera forcella cece, mi rassicurano che non si sale più e che sarà quel sentiero scorrevole. Bene, cioè benissimo. Faccio altre due chiacchiere volanti con le ragazze, una delle due la avevo già vista. Un po’ meno disperato riparto, dopo cinquanta metri ricordo dove avevo già visto quella ragazza che mi era rimasta impressa: serata presentazione articolo filo patagonia. Bene, benissimo. Penso che potrebbe essere segno di lucidità oppure del contrario. Va beh corro verso forcella cece. Eccola, la bacio, muah.

Ok, quello che ricordo ora dei chilometri fino all’ultima forcella sopra i laghi colbricon sono le sassaie. Tante sassaie. Ingannevoli sassaie. Ti fanno scollinare leggermente ma giusto per farti credere che sono finite, ma no, scollini quell’attimo giusto per vedere i prossimi trecento metri di segnavia bianchi e rossi (ovviamente su sassaie) che ti fanno credere ancora una volta che possano essere gli ultimi, ma no di nuovo e no di nuovo e no di nuovo ancora. Il biotopo zegama mi fa giocare a quel gioco di cui non ricordo il nome, qualcosa con ‘chirurgo’: se sbagliavo millimetro di porzione di appoggio del piede partiva una lama che mi si conficcava proprio lì dove non potevo appoggiarlo. Da piccolo il gioco vero non era così macabro. Continuo a giocare e nel mentre mi arrivano due chiamate: prima zambo e poi robi. O forse il contrario. Mi faccio dare indicazioni dove finiscono queste sassaie che mi stanno fottendo il cervello. Due cuori che a distanza hanno provato a incoraggiarmi per gli ultimi chilometri. Mi tranquillizzano e mi dicono che sotto le 24 ci sto sì, di stringere i denti fino alla forcella ceremana e che da lì le sassaie sono finite. È davvero così.

Forcella ceremana, (non proprio) zac e tac forcella colbricon. Vedo i laghi = so che da lì in poi è davvero corribile quanto so che questa discesa sarà davvero orribile.

Qui sblocco un racconto di robi: più o meno nello stesso tratto e stessa condizione dei piedi aveva provato a trascinarsi al rolle all’indietro. Due secondi per ragionarci e pensare di non provarci nemmeno. N’attimo di pazienza e provare appoggi diversi. Ecco questa frase me la sono ripetuta tante volte. Tante finché non sono arrivato ai laghi. Da lì sì che era corribile. Compatibilmente con tutte le ore prima e il biotopo ma corribile. E comunque si vuole correre. La volevo correre.

È l’ultimo tratto della mia prima translager. Ultimi tre chilometri, trovo più gente qui che in tutte le ore precedenti. Si fermano a lato per farmi passare e sorpassandoli si incrociano gli sguardi e sembra che mi domandino qualcosa mentalmente del tipo che giro abbia fatto, da quanto corro ecc. Sti cazzi non gli rispondo nemmeno mentalmente sono gli ultimi chilometri e corro come (la metà della metà) di zaccone agli ultimi di utmb. Svolta a sinistra e ultimo tratto, c’è una piccola salitina poi si intravede l’ultimissima. Scollino la prima e sento già che si stanno caricando le emozioni, le ributto giù n’attimo che c’è ancora l’ultima mini rampetta. Il parcheggio è vuoto ma me lo disegno come l’arrivo di due mesi prima, con l’arco di legno, un ombrello che sembra jesolo e anche un casuale michi matt con gli occhiali veloci e tutti gli altri TRCers. Arrivo. Mi siedo, mollo l’unico bachetto per terra e mollo le emozioni. Sono nel posto in cui vorrei essere.

Immaginavo diversa la mia prima translager: condivisa con gli altri nella giornata di partenza collettiva (assurdo, sarei arrivato perfettamente con james) o magari con qualcuno. O magari non cercavo proprio niente di tutto questo e ora non potrei immaginarmi la mia prima tanslager diversamente.

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