Translagorai Classic

17/07/2021 Filippo Caon

Filippo Caon – 21:58:46

Scrivere qualcosa su questo fine settimana non è facile, ma va fatto a caldo, prima che spariscano i dolori e le labbra screpolate. Quando sono entrato a casa, ieri pomeriggio, ancora con la terra tra le unghie dei piedi, le prime parole che mi sono uscite sono state i ringraziamenti a tutte le persone che sono venute. Non è retorica, ma per quanto possa essere emozionante la traversata di una catena montuosa, resterebbe una semplice traversata di una catena montuosa se non ci fossero persone con cui condividerla. Questo weekend ce lo siamo detti più volte: forse è proprio questo l’ultrarunning. L’avevo già percepito in altre occasioni, blandamente, ma forse l’ho vissuto così intensamente per la prima volta soltanto qui.
Nella Translagorai ci sono entrato lentamente. Ho assistito al primo tentativo, ne ho respirato i profumi, l’idea, ho fallito il primo tentativo – di cui mi resterà indelebile il ricordo di una bellissima giornata passata con un amico –, fino a contribuire all’organizzazione della traversata di quest’anno. L’ho sognata per un anno, con lo stesso rispetto che si dedica alle gare più famose del nostro sport. Quando Paco dice che questo evento è un tassello nella storia del nostro sport in Italia ha ragione, non c’entra la modestia, chi l’ha vissuta lo sa. Fino al giorno prima mi sembrava soltanto un bell’evento, logico, basato su belle idee. Una volta finito è diventato semplicemente parte di me. Tolta la retorica, lo penso davvero.

Sono d’accordo con Ale quando dice che il percorso di Translagorai è quanto di più lontano dalla sua (e dalla mia) idea di corsa, almeno in questo momento della mia vita, ma forse è anche la cosa più vicina all’ultrarunning che ho vissuto: salendo ai laghetti di Colbricon, dopo ventidue ore di corsa, mi sono commosso di una commozione che non proverei altrove. Correndo sul morbido sentiero che porta al rifugio, con noi c’erano due amici venuti da Varese soltanto per dare un amano, altri venuti da lontano per fare da mangiare, altri soltanto per vederci arrivare. È difficile spiegarlo a chi non c’era. Forse è difficile spiegarlo e basta, anche a chi c’era, mancano proprio le parole. Per cui me lo terrò per me, dispiacendomi per tutti quelli che non c’erano, e per tutti quelli che pur essendoci non l’hanno capito.
E poi c’è chi l’ha capito molto bene, come i ragazzi di Trento, la città più devota all’ultrarunning d’Italia, dove gente che non ha mai corso in vita sua ha forse capito questo sport ancora più profondamente di chi lo pratica da anni: svoltando l’angolo prima del Paolo e Nicola, il bivacco in cui il Tenente Mirel e il suo esercito avevano allestito uno dei ristori più belli di sempre, sono stato investito da un boato indescrivibile, a confronto del quale i volontari del Tor sembrano un club di ragazze pon pon. E poi Tommi del Rifugio Cauriol, che ha forse rappresentato nel modo più alto il senso dell’accoglienza e del rifugio.

Ma questo è un resoconto, scritto per essere d’aiuto a tutti coloro che tenteranno la traversata in futuro. E allora come da tradizione iniziamo dal principio, mettendo in fila le informazioni, i dettagli, gli errori e le cose giuste, come nella migliore tradizione alpinistica.

Sono arrivato a Passo Rolle (arrivo della traversata) col camper di Paco il venerdì prima della partenza. Salendo ci siamo fermati a fare una corsa a Predazzo, che mi ha aiutato a sciogliere le gambe per il giorno successivo. Nel pomeriggio abbiamo preparato lo zaino e abbiamo scelto cosa portare via, per poi darci al seitan, alla birra e all’aneddotica in compagnia del Michi, che è rimasto con noi durante la serata. Il giorno dopo abbiamo passeggiato attorno al passo per guardare un gruppo di cadetti finanzieri calarsi in corda doppia da un prato, chiedendoci se noi saremmo sembrati altrettanto ridicoli il giorno successivo, vagando come zombie in giro per le creste del Lagorai. Una volta arrivati Manuel, Oscar, Giulio e la Cate, Alberto, Daniele e un po’ di altra gente, abbiamo levato le tende e siamo partiti per la Panarotta, con una tappa alla pizzeria al trancio del centro commerciale di Civezzano. In Panarotta abbiamo raccolto le iscrizioni e salutato tutte le persone che ci aspettavano lì, abbiamo fatto un briefing e poi abbiamo controllato le ultime cose.

La temperatura era buona. Io sono partito con: Scarpa Spin Infinity, calzini Stance, pantaloncini Patagonia Strider Pro (gli stessi dell’anno scorso), maglia Patagonia Capilene Air Hoody. Nello zaino (Salomon Adv Skin 5l): maglia Patagonia Capilene Daily, guscio Arcteryx Alpha FL, antivento Patagonia Houdini, copripantaloni Decathlon-qualcosa, un paio di calzini di ricambio, guanti Kask mai entrati in produzione, 1,5l di acqua (di cui mezzo mai usato), una frontale Petzl Actik Core e una frontale Petzl Bindi di emergenza (è servita), diciotto gel, quattro Sneakers, una bustina di sali, cellulare. Al polso, Coros Apex 46mm carico con traccia gpx e modalità full gps attivata (arrivato con 46% di batteria). Infine, l’immancabile cappellino Le Coq Sportif. Ah, ho lasciato un pile Patagonia R1 nel furgone di Luca Albrisi, da trovare al Manghen e al Cauriol. Avevo pensato all’accoppiata: intimo lungo più antivento e tshirt più pile. Bene o male è uno zaino standard da UTMB. Le cose che mi sono portato via le ho usate tutte, ma se avessimo avuto certezza di trovare bel tempo avrei rinunciato a copripantaloni e guscio.

Un paio di chilometri dopo una partenza, alla luce di un tramonto da film rosa che avvolgeva tutto in un soffice blur arancione, abbiamo subito sbagliato strada, arrampicandoci e riscendendo dalla spalla del Fravort. Ascoltando con attenzione si sarebbero sentiti risuonare i nostri pensieri e l’Outro degli M83, che ha reso indelebile l’alba a Western States. Nella notte ho corso principalmente con Paco, Mosè, il Genovese e Lorenzo. A parte una ventata al Mangheneti la temperatura è sempre stata buona. Voltandosi, una lunga fila di frontali illuminava la catena: «Filo, abbiamo illuminato il Lagorai». Le nostre cazzate scendevano fino a Borgo Valsugana, che ci illuminava dal basso, e insieme gli incitamenti a persone inesistenti e amici che avrebbero voluto esserci.
Al Manghen abbiamo raccolto Daniele Sperotto, che si era fermato tre quarti d’ora per aspettarci e che ci ha ragguagliati sulla situazione in testa al gruppo. Un abbraccio di sostegno ad Andrea Torresan, che all’apice della sua forma si è dovuto ritirare per un’incalcata al ginocchio, e poi via verso un nuovo mattino.
La prima crisi è arrivata poco prima della Litegosa ed è durata un paio d’ore, prima di riprendermi scendendo al Cauriol. In quelle ore, in cui avrei voluto soltanto restare da solo e scavare nel profondo ripensando a quanto desiderassi quella traversata, ero invece bombardato di chiacchiere e input sonori esterni: probabilmente gestire le parole degli altri è stata la cosa più difficile per me e Daniele, almeno in quel momento. Al Cauriol ho bevuto una Coca Cola e ho mangiato un panino al formaggio che mi ha offerto Daniele. Da qui siamo partiti in cinque, col gruppo destinato a diventare quello definitivo: Paco, Daniele, Mosè, Asha (il suo cane), e io. Tutti insieme per due ore di cavalcata verso il Paolo e Nicola, ultimo punto di ristoro. Sull’ultimo traverso, con Mosè poco avanti, in odore di polenta e di polvere da sparo ho cambiato marcia e ho allungato il passo fino al bivacco, per fermarmi qualche minuto in più aspettando gli altri. Girato l’angolo del bivacco sono stato investito da un boato: sull’asta, la bandiera italiana era stata deposta per issare quella gialla di Polenta Malgazine, il Tenente guidava i suoi uomini, che mi incitavano, gridavano, bevevano. Avevano allestito un ristoro enorme, insieme a loro ci saranno state venti persone. Siamo rimasti fermi a goderci la situazione il più possibile, per poi ripartire insieme a Oscar e a Manuel, che da questo punto ci avrebbero accompagnati all’arrivo.
La carica del ristoro è scemata mezz’ora e trecento metri di dislivello dopo il bivacco, e il nostro trenino della sofferenza ha iniziato a vagare per praterie, forcelle e pietraie; una dopo l’altra. I dubbi sul percorso venivano continuamente confermati dal paesaggio: il nostro unico riferimento visivo era il Cimon della Pala, che però vedevamo dal lato sbagliato, lasciandoci intuire quanto ancora mancasse. Dopo una sfilza infinita di forcelle, convinti di essere arrivati, a Punta Ces, con la vista del Rolle lontanissimo sullo sfondo, la vista dell’ennesima discesa all’inferno e un’ultima lunga risalita ha trasformato il dramma in commedia: il vaso, la goccia. Mosè, convinto di accorciare la strada, ha iniziato a salire verso Passo Col Bricon alto, o grande, o che ne so. Mentre noi, troppo vuoti per disperare ci siamo tuffati dentro la valle, corricchiando goffamente su una pietrosa pista da sci, per poi riprendere a salire un’ultima volta verso il Colbricon.
Ormai in odore di arrivo ho ringraziato i miei compagni di viaggio per la giornata, e idealmente anche Mosè, che nel frattempo stava ancora vagando da qualche parte per i crozzi e per le crode. Poi dall’alto, a un tratto, una sagoma in controluce, grido «Giulio». Poi uno dietro l’altro: Enrico, Stefano. Dai laghi diventa una passerella d’onore. Ripenso a quando ho fatto questi metri al buio, un anno fa, correndo con Giulio all’inizio del nostro tentativo, nel gelo di una mattina di fine settembre, sono felice di fare questi metri con lui.
Ci fermiamo a centocinquanta metri dall’arrivo a chiacchierare con Maurizio, che si è ritirato la notte prima: abbiamo ancora sei minuti per stare nelle 22 ore: il tempo per aspettare Daniele, poco più indietro, e per arrivare insieme. Sulla strada incontriamo Tommi, Francesca, l’Alessandra, Luca, l’Ale. Mi fermo ad abbracciare tutti, poi ci mettiamo paralleli, una toccata alla sbarra gialla e verde, e tocchiamo l’asfalto del Rolle.

Potrebbe finire qui, il racconto. Ma la traversata mia e di Paco è finita a mezzogiorno del giorno successivo. Davanti a un trancio di pizza a Predazzo, quando per la prima volta ci siamo messi a parlare di qualcosa di diverso dalla traversata. Nelle ultime quarantotto ore ci era passato un treno sopra e non ce ne eravamo accorti, avevamo organizzato gli spostamenti, capito quanta gente partiva, contattato i ritirati, organizzato i volontari, venduto magliette, e in tutto questo avevamo anche corso ottanta chilometri. In quel momento mi è salita tutta la stanchezza a cui non avevo avuto tempo di abbandonarmi. Mangiata la pizza siamo ripartiti verso Trento, facendo la strada che due giorni prima avevamo percorso con Manuel e gli altri per arrivare in Panarotta. È incredibile quanto tempo ci voglia a fare in macchina la stessa strada che abbiamo fatto a piedi: quel che è certo è che non la rifarò mai più. Forse.

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